9 Ottobre 1963

Vajont 31 03 13 (6)

Nell’ottobre del 1963 avevo appena incominciato la prima elementare, allora la scuola iniziava il 1 ottobre lasciandoci liberi per tutta l’estate per riaccoglierci con i primi freddi.

La sera del 9 ottobre fu come tutte le altre: dopo alcune ore di gioco, i primi compiti, i litigi con mia sorella piccola che aveva 3 anni, la cena aspettando che ritornasse mio papà dalla solita partita alle carte, e poi a letto senza neanche carosello perché non avevamo ancora la TV. Non credo ci accorgemmo di niente, noi in via Feltre a Belluno, non c’erano i cellulari, e nessuno disse molto di ciò che era successo a noi bambini nemmeno la mattina dopo. Ma non era una mattina come le altre. Gli adulti non si comportavano come al solito. C’era agitazione, movimento, parole, sguardi che non sapevo interpretare.  Quella che ricordo come la notte del 9 ottobre fu forse la notte successiva, o l’atmosfera dei giorni successivi, qualcosa di enormemente minaccioso che mi era scivolato accanto “quella notte” col suo carico d’acqua e di morte.

Il resto venne a pezzi, a strappi di parole i giorni seguenti. Non so precisamente quando, forse all’alba del giorno 10 mio padre si era precipitato fuori. Il fiume portava i morti. Dove il Piave li aveva buttati fuori qualcuno cominciava a recuperarli, e a chiamare aiuto. Mio padre si era trovato al cimitero comunale, che era vicinissimo alla nostra casa, in mezzo a improvvisati becchini spaventati e costernati, che non sapevano come affrontare quei cadaveri portati nei teli, nei lenzuoli, tre, cinque dieci ma quanti sono? I bambini, ci sono bambini, donne, corpi, mezzi corpi, svestiti scorticati stravolti.

Arrivavano le bare, alla sera i fanali, il buio lacerato dai lumi e dalle imprecazioni, dai pianti. L’orrore e la paura facevano fare cose assurde, come mettere corpi adulti in bare troppo piccole, mio padre dovette affrontare un operaio, sconvolto, che stava per spezzare le gambe a un cadavere di uomo, per farcelo entrare  a forza.

“Non così,- gli dissi- io lo sapevo, l’avevo visto fare in Germania: i corpi dei morti diventano duri, ma pian piano, pian piano muovendogli le gambe sono riuscito a sciogliere quei legamenti ghiacciati, a farlo entrare dolcemente fra le tavole di legno”. Mio padre questo episodio lo raccontò in seguito e non pensava certo che io lo ascoltassi, ma io da piccola riuscivo a stare in una stanza senza che i grandi se ne accorgessero.  Era riuscito ad adagiare il corpo di lato, leggermente piegato, come se dormisse. Mio padre stette lì tutta la notte e il giorno seguente. Il Piave portava i corpi, da Longarone fino alle nostre rive, e oltre, giù fino a San Donà di Piave. Tra di loro, mio padre ne riconobbe qualcuno: conosceva tutti i “suoi” ragazzi che frequentavano l’Istituto Tecnico Commerciale ( “la  Ragioneria “ di cui lui era il bidello-custode), e anche molti dei loro genitori, quelle persone che ogni trimestre da tutti i paesi e quindi anche da Longarone, Provagna, Faè… venivano ai colloqui coi professori e si poi fermavano a parlare coi bidelli, per chiedere come veramente si comportassero i propri figli.

Non so dare la giusta collocazione temporale ai fatti, ma qualche giorno dopo ci fu una cerimonia al Cimitero Comunale, alcune vittime vennero sepolte lì, come altre nei cimiteri di altri Paesi della Valbelluna. Mio padre ci andò e venne accolto da una linda crocerossina che voleva dargli “un fazzolettino disinfettante”, le autorità erano schierate, tutti a puntino, ma degli operai e becchini che avevano lavorato i giorni precedenti non vide nemmeno neanche l’ombra.  Mio papà sentì i discorsi delle autorità, vide i presenti che si passavano i fazzolettini disinfettanti,  tutto questo lo riempì di rabbia che esternò con violenza. Ma quella notte terribile dov’erano le autorità? Comodi nei loro letti, mentre i poveracci tiravano su i morti dal fango!  Dove erano i fazzoletti, i guanti, quella notte? Ma se mancavano le bare, se nessuno sapeva cosa fare né cosa fosse successo…Mio padre si arrabbiò e fece una delle sue tremende sfuriate, minacciò tutto e tutti, urlò tutta la sua indignazione e tornò indiavolato a casa. Sperai l’avessero scambiato per un parente stravolto, allora mi vergognavo per le uscite di mio padre.

Noi bambini continuammo ad andare a scuola, a vergare con inchiostro e pennino fin quasi a Natale, come si usava allora, infiniti segni sulle righe del quaderno di prima, uncini, tondi, linee. Gradatamente saremmo arrivati all’alfabeto… I quaderni dei nostri coetanei di Longarone erano sparsi nel fango, quando dopo alcuni mesi andai per la prima volta al cimitero delle Vittime del Vajont mi sembrò che le duemila croci bianche assomigliassero ai quei segni sui quaderni, ogni segno un quaderno incompiuto.
Solo dopo alcuni giorni mio papà mi condusse per mano a vedere il Piave, andammo giù per il sentiero che tante altre volte avevo fatto con lui, dalla collina allora  coltivata a vite si scendeva fino al fiume, questo corso adesso sempre scarso, depredato della sua acqua da tutte le dighe e le condotte forzate della valle.
Ma quel giorno il Piave era altissimo e veloce e scuro. E già si era abbassato, mi disse mio padre, facendomi vedere a che livello fosse arrivato i giorni precedenti indicandomi gli stracci e il fango depositati sulle chiome degli alberi.
Non credevo che il fiume potesse fare tanto e gli domandai perché, e perché avesse ucciso, e dove erano le persone, e perché non avessero nuotato, perché nessuno le avesse salvate.
Ci misi anni per capire.
Anni in cui ad ogni ricorrenza scrivevamo “i pensierini” sul 9 ottobre e poi i temi, anni in cui non ho smesso di leggere, di appassionarmi agli scritti di Tina Merlin , alle memorie dei sopravvissuti, ad indignarmi ogni volta che sentivo parlare di ” disastro inevitabile della natura” e di come ” la diga però non avesse ceduto, opera magnifica”.  Altri anni in cui ho semplicemente vissuto.
Alle scuole medie alcune delle mie compagne venivano da Longarone e Soverzene, eravamo l’unica classe tutta femminile.  Ho il ricordo vivido di quando l’anziana insegnante di francese ne fece alzare una, la figlia del dottore di Longarone, morto nel 1966 mentre accorreva in aiuto ai suoi concittadini vittime dell’alluvione del 4 novembre e per questo insignito della medaglia d’argento alla memoria. Ho presente la mia compagna, dignitosa, con le braccia appoggiate dritte sul banco, come a sorreggersi, rispondere con poca voce ma senza lacrime alle domande della professoressa. E noi facemmo un silenzio assoluto. Le domande erano gentili, quasi troppo, le trovai indiscrete: Siete andati a Roma, vi ha ricevuto il Presidente? Ti sei commossa? ecc.  Alla fine smise e la lasciò sedere, credo di non aver mai odiato tanto una professoressa, anche se adesso penso che le sue intenzioni non fossero cattive. Il dolore composto della mia compagna. Il dolore delle vittime, il silenzio dei sopravvissuti,  le domande fuori posto dei curiosi, dei cronisti, dei benintenzionati…
Tanti, tantissimi altri ricordi legati alla tragedia si sono susseguiti nel tempo anche perché poi lavorai due anni proprio a Longarone, ma uno mi è rimasto stampato nella memoria su tutti.
Un giorno venne a casa nostra un ragazzo, uno che aveva frequentato la Ragioneria, e chiese di vedere mio padre. Stettero loro due soli in cucina, ma la porta rimase aperta e in qualche modo è come se io fossi sempre stata al centro di quella stanza. Il ragazzo era di Longarone e si era salvato perché quella notte era lontano, ospite di parenti. La sua famiglia era stata distrutta.
Il ragazzo era venuto per fare una domanda a mio padre. Gli chiese come era sua madre nel momento in cui lui l’aveva riconosciuta in mezzo ai morti e poi ricomposta nella bara.
“Com’era mia madre?”

I corpi degli uomini e delle donne di Longarone e di Faè si presentavano ai nostri occhi in condizioni irreali e riuscivano a spiegare, nel loro terrificante aspetto, meglio di ogni realistica ricostruzione, la portata del disastro.
AVEVANO UN ASPETTO DIVERSO DELLE VITTIME DEL Polesine, di AGADIR, di SKOPJE: SEMBRAVANO MORTI DUE VOLTE! ( Il Giornale d’Italia F. Borsato).-

” Tua madre sembrava che dormisse.”
Il ragazzo alzò il viso, guardò fisso mio padre, un misto di dolore, di speranza, di sfida:
“Gino, dimmi la verità, l’acqua l’ha trasportata fino a Belluno!”
Mio padre restituì lo sguardo, calmo, gli occhi fissi nei suoi, quegli occhi color acciaio che possono tanto incenerirti sul posto quanto rassicurarti. Il ragazzo abbassò la testa.
“Tua madre era bella. Ti dico: sembrava che dormisse. L’acqua non le ha fatto nulla altrimenti non avrei potuto riconoscerla, ho adagiato io la tua mamma, piano nella bara, nessuno l’ha toccata.”
Il ragazzo rialzò il viso, solo allora mi accorsi del colore dei suoi occhi, azzurro-cielo.
“Grazie, Gino.”
Tutta la stanza si colorò d’azzurro cielo.

Paola Marini Gardin
© Copyright Paola G.

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