Di Gatti e di altri AMORI – 1^ Parte

foto - Di Gatti e di altri AMORI - 1^ Parte
il mio Gatto Puntino © Copyright Paola G.

Amo i Gatti.
Mi piacciono anche i cani e ogni tipo di animali in genere a parte le zecche e le zanzare alle quali io invece piaccio molto.
I Gatti fanno parte della mia vita, i periodi in cui sono costretta a non averli accanto sono aridi e duri da superare.
Sono gattofila da parte della famiglia di mio padre. Mio nonno (suo padre) che purtroppo non ho mai conosciuto amava i gatti, si racconta che il mattino si alzasse presto per preparare la colazione: ai gatti. Sfamati i pelosi, pensava anche a moglie e figli. Mio nonno, colpito in gioventù da una palla di neve ad un orecchio, col tempo diventò completamente sordo e lavorava in casa, credo tenesse la contabilità per diversi imprenditori, mentre mia nonna faceva la maestra, mattina e pomeriggio. Avevano anche un cane, qualche mucca, una capra che svezzò mio padre, un maiale, conigli, papere, tacchini e galline. Rimasta vedova, mia nonna allevò anche i bachi da seta. Gatti e cani avevano la loro prospettiva naturale di vita, per le altre bestie la scadenza era molto più breve. Per ognuno di questi animali mia nonna mi raccontava degli aneddoti, molti li ho dimenticati. La gatta più longeva che abbia avuto visse 22 anni, era molto amata e si chiamava Fauzia. Per due volte, partorì oltre ai normali cuccioli, un gattino con sei zampe. Il poverino era trascurato subito mentre la gatta prodigava cure al resto della cucciolata. Mia nonna ogni volta cercò di farle accettare il derelitto di turno, ma la gatta non ne voleva sapere. “Si vede che Fauzia sapeva che in natura il micino non sarebbe sopravvissuto” concludeva mia nonna. In ultimo la gatta era diventata cieca, ma scodellava ancora un cucciolo all’anno. Era abituata a bere ogni giorno un goccio di caffè, che mia nonna le versava nel piattino dalla sua tazzina. Il fatto che la gatta leccasse il piattino del servizio da caffè era una cosa inconcepibile per la mia mamma, ma la nonna a casa sua, a Castel Roganzuolo, faceva quel che le pareva.
Quando venne a stare da noi mia nonna portò con sé la sua cagnolina, Liù, una piccola meticcia nera con una macchia bianca sotto il collo e una bella coda da volpina. Continuava, però, ad amare i felini e noi abbiamo sempre avuto dei gatti che la mia mamma sfamava a patto che se ne stessero fuori di casa. Grazie a mia nonna, il gatto o la gatta prescelti avevano l’autorizzazione a varcare la porta di casa e saltare in grembo a mia nonna per essere accarezzati. In seguito mia mamma tollerò persino che si accoccolassero sulla sedia di mia nonna anche in sua assenza. Devo dire che è sempre stata mia madre a procurare il cibo per i gatti e a prendersi cura degli orfanelli, gatti o conigli che fossero. Succedeva che la mamma morisse e i cuccioletti erano allattati con minuscoli biberon casalinghi annacquando il latte bovino. Sopravvivevano, la mia mamma era molto precisa e amorevole, ma una volta cresciuti erano messi fuori. I gattini passavano alle cure mie e di mia sorella che trascorrevamo ore a giocare con loro. “Non baciatelo sul muso, non respirategli vicino, non baciategli la pancia!” raccomandava inutilmente mia madre, paventando terribili malattie infettive.
I coniglietti invece passavano alle cure di mio padre, le femmine la scampavano diventando riproduttrici, uno o due maschi prestanti pure, gli altri dopo qualche mese erano ammanniti con la polenta. Erano trattati bene: erbetta fresca, fieno, persino erbe aromatiche di montagna. Per dargli gusto. Da piccole ci fu risparmiato il  momento del macello: un unico colpo sulla nuca, lo spellamento (la pelle era sotterrata in profondità, perché le volpi non ne sentissero l’odore), il corpo appeso a due chiodi per le zampe di dietro, il sangue che colava sulla porta della baracca e stillava a terra. Neanche da più grande ho mai visto ammazzarli, ho visto solo i conigli già morti e spellati, poi venivano fatti a pezzi e mia mamma li cucinava, ogni domenica era una festa, coniglio e polenta e seduti a tavola dimenticavamo che i tocchetti squisiti erano stati i teneri batuffoli a cui avevamo portato l’erbetta.

Famiglia Gardin (non completa)
La famiglia di mio padre, da sinistra in piedi Pia, Lia, Teresa, seduti Emilio, nonna Evangelina e nonno Giacomo, mio papà Luigi, la piccola Marta al centro. mancano le due sorelle più grandi, Maria e Rachele. © Copyright Paola G.

Ho ricordi precisi dei primi gatti della mia vita. Un bel gattone rosso che era stato dei miei zii Pina e Achille. Quando lasciarono la casa di Mane, minuscola frazione in mezzo ai campi, si trasferirono in un appartamento a Chiesurazza e prendemmo noi il loro gatto. Il micio rosso aveva un grande territorio di caccia attorno alla nostra casa, abitavamo a qualche centinaio di metri dal centro, ma allora ci consideravamo in periferia, circondati da un parco e da prati e campi che arrivavano fino al Piave. A nord, purtroppo, al di là della siepe c’era la strada, via Feltre, dove spesso finiva la vita selvaggia dei nostri felini cacciatori.
Non compravamo certo crocchette o alimenti per cani e gatti: a loro andavano i resti del nostro cibo, un po’ di pane e latte la mattina e ogni tanto delle frattaglie prese per pochi spiccioli in macelleria. Il gatto rosso provvedeva autonomamente ai suoi pasti, ma quando la mia mamma apriva e chiudeva più volte la forbice simulando il taglio della carne che aveva già preparato, polmone di solito, il micio si fiondava sul davanzale della finestra per divorare il contenuto del piattino. Tutti i gatti che avremmo avuto in seguito correvano al richiamo del “zic zac” della forbice e se volevamo chiamarli, bastava sforbiciare in aria.
Ricordo il gatto rosso sul davanzale, specie in inverno, schiacciato contro i vetri della finestra della cucina, il pelo folto, le zampette serrate, il musetto rivolto verso di me. Mia nonna paterna non stava ancora con noi e mai gli fu permesso di entrare. Io capivo che stare in casa al caldo era quello che desiderava e che avrei voluto anch’io, ma ero troppo piccola per disobbedire apertamente a mia madre. Un giorno il gatto scomparve, non duravano mai molto i nostri gatti. Abituati a cacciare correvano a loro volta il pericolo di diventare prede di volpi e faine, attirate dalla presenza delle nostre conigliere e del pollaio.
Prima di questo avevo avuto un altro gattino, tutto mio. Una creaturina bianca a macchie nere, un cuccioletto da coccolare. Ho una sola foto con lui sul divano, io piccola e scura (forse eravamo stati al mare ed ero abbronzata) e lui una pallottola pelosa che sfugge alla mia presa. Mi seguiva fuori nel prato e io mi divertivo a farlo giocare con uno spago o con un ramoscello che tentava di afferrare. Tentava anche di prendere la sua coda, girando intorno. Gli volevo bene, come poté succedere che usai un fuscello come un frustino sulle sue zampette? E un giorno non lo trovai più. Chiesi di lui, mia mamma disse che si era ammalato di diarrea e l’avevano messo in una scatola a guarire, domani l’avrei rivisto. Ma domani non arrivava mai, continuai giorno dopo giorno a chiedere, la risposta era sempre la stessa. Mi persuasi di essere stata io la causa della sua malattia e della sua morte, perché l’avevo frustato, avevo colpito il suo tenero corpicino peloso col frustino. Un rimorso durato decenni, fino a che mi sono resa conto che il “fuscello” non avrebbe causato danni nemmeno a un neonato prematuro di topo. Il gattino doveva essersi ammalato e io avevo collegato i due fatti gattino sofferente/gattino frustato incolpandomene. Allora non si usava vaccinare i gatti contro la gastroenterite o altre malattie né tanto meno portare cani o gatti bisognosi di cure da un veterinario. Solo vacche o cavalli meritavano questo privilegio e unicamente perché erano economicamente utili e necessari, non animali da compagnia. Scontai in ogni caso la mia colpa presunta amando incondizionatamente tutti i gatti della mia vita.

Avevamo anche un pollaio, ero ancora molto piccola quando mia mamma mi portava con sé a prendere le uova delle nostre galline. La mamma aveva paura del grande gallo bianco che a volte le si avventava contro, io a mia volte ne avevo il terrore e ho conservato una certa avversione per il pollame in generale. Non delle chiocce con la covata, i pulcini che spuntavano da sotto la loro mamma apprensiva mi incantavano. Un giorno accadde veramente che il gallo colpisse mia madre ad una gamba e così mio padre provvide a promuoverlo da re del pollaio a re del tegame.  Quando crebbi un po’ andai da sola a prendere le uova, velocemente, fingendomi un’apache che rubava cavalli, con la dannata paura di essere assalita dagli speroni dei pennuti. Anche i tacchini, che mia nonna chiamava “dindie” e “dindiot” m’incutevano una discreta fifa.

Soffrivo molto per la perdita di ogni amato gatto, ma appena uno spariva ne compariva subito uno nuovo, o anche due. La primavera era la stagione che ci elargiva più gatti, oltre ai nostri nuovi nati arrivavano quelli che persone sconosciute abbandonavano dentro il nostro cortile con grande gioia mia e di mia sorella e costernazione dei miei genitori. Era la stagione delle cucciolate più fortunate, i gattini facevano in tempo a crescere prima di affrontare l’inverno e inoltre c’era più possibilità di farli adottare da qualche famiglia, in campagna c’era sempre bisogno di gatti che pigliassero i topi.  Le figliate autunnali avevano meno probabilità di essere accettate, senza che noi lo sapessimo, interveniva una sofferta selezione ad opera di mio padre. A volte però le gatte riuscivano a nascondere talmente bene i loro cuccioli che quando comparivano con quattro – cinque gattini al seguito, già padroni di sé e deliziosamente miagolanti, nemmeno Erode sarebbe riuscito a eliminare quegli innocenti, tanto meno il mio papà.

Purtroppo era inevitabile dover tenere a bada la natalità felina e mio padre doveva dolorosamente addossarsene il compito. La prassi di sterilizzare cani o gatti era sconosciuta.  Tolte le gatte che, fatte furbe dopo la prima esperienza, si nascondevano per partorire e allevare i piccoli, alla gatta era preparata una comoda cuccia in una cassetta foderata, posta in alto nella baracca degli attrezzi. La gatta si fidava. Partoriva i gattini, minuscoli esseri che leccava ben bene e allattava. Subito o alla sua prima brevissima assenza, una mano che di solito la accarezzava prendeva i neonati, ne lasciava solo uno nella cuccia, si metteva gli altri in petto, sotto la maglia perché stessero caldi fino all’ultimo momento. Da solo mio padre faceva un centinaio di metri fino ad un ponte sul rio davanti al cimitero. Un’unica botta alla nuca, un salto nell’acqua. Tornava avvilito, arrabbiato con se stesso e col suo ruolo di boia. Solo da grandi ci rivelò questi fatti e quanto gli era pesato dover sopprimere le cucciolate. Non mi sento di biasimarlo.  Per un po’ la gatta cercava i suoi piccoli, poi si rassegnava e allevava l’unico rimastole.
Io leggevo nel suo sguardo un accorato “Perché?” e cercavo di consolarla accarezzandola. Spesso il fortunato era un maschietto (che non avrebbe prodotto altre cucciolate) ma non sempre mio papà riusciva a distinguere il sesso dei cuccioli, scegliere in fretta e di nascosto non era facile. Io domandai a mia nonna Lina come si distinguessero i maschietti dalle femminucce e lei me lo insegnò, non sbagliai mai, anche se grazie al cielo non dovetti mai sopprimerne uno.
Anche la cagnolina Liù provò a far scampare alla selezione una sua cucciolata scavandosi una tana sotto un albero. Quella volta le andò bene: fu individuata, ma il suo coraggio fu premiato, come non ammirarla? I cuccioli svezzati trovarono altre case, ma per le volte seguenti anche a lei rimase un solo cucciolo. La cagnolina era attentamente sorvegliata, durante i suoi periodi di “estro” e così successe raramente che rimanesse incinta, ma un cagnetto tanto brutto quanto intraprendente, certo Ghibli basso e tarchiato, color sabbia, riuscì in qualche modo astuto a eludere ogni ostacolo e Liù partorì cuccioletti piccoli e tracagnotti, color sabbia. Gliene lasciarono solo uno: un cosetto buffo e tondo che seguiva la madre traballando, un amore di cagnolino. Povera Liù, anche lei si accorse che le mancavano gli altri figli, ma era inutile chiedere “Perché?” Rassegnata, allattava l’unico piccolo che aveva un’ampia scelta di mammelle per sfamarsi. Una volta mio papà le appioppò anche un paio di gattini, una nostra giovane gatta ne aveva scodellati in eccedenza e chissà come non erano stati eliminati. Liù, tollerante, allattò i micetti insieme col suo nato e i cuccioli crebbero insieme, strana famiglia di “can –gat” come li chiamò un nostro parente. Volevo bene alla Liù, anche se il primo impatto era stato negativo: la prima volta che mia nonna ce la presentò, la cagnolina le sedeva in braccio, io alzai una mano per accarezzarla e lei  me la morse, senza fare sangue, ma lasciandomi lo stampo di un canino sulla pelle. Più che altro ci rimasi male, mia nonna la sgridò ma non permise una punizione. Mi disse di non piagnucolare, la cagnolina non mi conosceva e aveva difeso la sua padrona, non dovevo avvicinarmi mai ai cani con le mani alzate, ma con la mano aperta sotto il muso.

paola dani e Liù
da sinistra: io a sette anni, a destra la cugina Tiziana, mia coetanea e al centro mia sorella Daniela, quattro anni. Davanti la piccola Liù.  © Copyright Paola G.

 

La mia nonna paterna stette con noi per molti anni, almeno otto, ogni tanto andava via alcune settimane da uno o dall’altro dei suoi figli e la piccola Liù ne soffriva la mancanza, i primi giorni era proprio depressa. Non capimmo mai come facesse, ma il giorno che mia nonna era in viaggio per ritornare col treno, la cagnolina stava all’erta già dal primo mattino, tutta tesa ad aspettare per ore e ore, finché all’improvviso si lanciava in una corsa sfrenata e andava incontro alla sua amata padrona.  Una delle ultime volte saltò così in alto che le baciò il naso, e mia nonna non era piccola di statura. Poi Liù ricadde con un piccolo grido, da allora cominciò a non stare troppo bene, secondo mio padre aveva avuto un colpo al cuore dalla felicità. Quando mia nonna andò in pensionato la cagnetta restò con noi e rapidamente invecchiò, poi si ammalò di cimurro, faceva pena. Come tutti i nostri animali da affezione trovò sepoltura nel nostro giardino, vicino ad una delle piante di rose.

Ricordo una gatta bianca col suo micetto altrettanto candido nel prato dietro la casa. Era bello vedere la mamma col suo piccolino. Bello vedere il gattino ciucciare e poi addormentarsi soddisfatto, il roseo pancino tondo, le zampine all’insù. Bello vederli giocare insieme, la mamma lasciava che lui le afferrasse la coda che muoveva appositamente per lui e poi lo accompagnava in giro e gli insegnava a cacciare. Gli portava piccole prede che faceva rimbalzare tra le zampe, davanti al naso curioso del gattino, finché lui non la imitava.  Anch’io lo facevo giocare, imprigionavo entrambi in un cestino dalla trama rada, facevo calare un nastrino o uno spago dall’alto e loro giocavano girando e afferrando il nastro, facevamo a gara a chi tirasse di più. Poi li liberavo, ma volentieri tornavano nel cestino per giocare ancora.

Avemmo gatti neri, grigi, bianchi, tigrati, rossi, soriani, a macchie, gatte tricolori.
Mai gatti siamesi o persiani o qualunque razza che non fosse il comune magnifico gatto domestico.

foto - Di Gatti e di altri AMORI - 1^ Parte
Penelope detta Pippi © Copyright Paola G.

Anche i quattro gattini partoriti da una gatta soriana furono una delle “cucciolate fortunate”, arrivarono trottando dietro alla loro madre con le codine diritte, già pronti per mangiare dalla ciotola. Prima di trovare loro una sistemazione, ce li godemmo per l’intera estate. La gatta li sorvegliava premurosa, ma a qualche ora doveva pur assentarsi e andare un po’ per i fatti suoi, così io e Daniela trovammo un gioco: prelevavamo i gattini dalla loro cuccia e li nascondevamo lontano, la gatta tornava e trovando la cassetta vuota subito si metteva in cerca dei suoi piccoli e noi “l’aiutavamo” nella ricerca fingendoci costernate. Lo ripetemmo più volte e sempre la gatta individuava la sua nidiata pigolante, prendeva uno alla volta i suoi piccoli in bocca e li riportava nella cuccia. Senza poter profferire un rimprovero, il suo silenzioso andirivieni alla fine mi procurò un grande rimorso. Cosa stavo facendo? Mi vergognai del mio atto crudele. Portare via i cuccioli, indifesi, ad una gatta a cui volevo bene e che si fidava di me. E che per di più non poteva lamentarsi e far valere il suo diritto di madre. Ero stata vigliacca e traditrice.
Giurai (anche se al catechismo avevo imparato che giurare era peccato) che non avrei fatto mai più scherzi a nessun animale. Questo mi mise in contrasto con mio padre. Cresciuto in campagna aveva imparato a imitare i compagni più grandi tormentando a volte le bestiole. “Fare l’aquilone” infilzando un maggiolino su uno stecchetto o tenendolo legato per una zampina, stanare i grilli, prendere e uccidere rane e uccelli da nido (questi veramente servivano da cibo anche per la famiglia), costruire minuscoli carri e farli tirare da una quadriglia di topi o di lucertole, attaccare  i gatti ad un ombrello a mo’ di paracadute e lanciarli dal piano superiore della casa e via dicendo. Certo, ora non faceva più quelle cose, ma un certo piacere nel combinare scherzetti gli era rimasto, ci aveva insegnato a applicare i gusci vuoti delle noci ai polpastrelli dei gatti, pian piano quando dormivano di gusto sulla sedia della nonna. Il gatto si accorgeva che qualcosa non andava e quando balzava sulle piastrelle cominciava a scivolare come avesse i pattini da ghiaccio, più scivolava più si spaventava fino a diventare pazzo e schiantarsi sui vetri della finestra cercando una via di scampo. Ma ora questo non lo consideravo più  un gioco e non volevo più prendere parte allo scherzo crudele. Era un tradimento.
La cagnetta Liù era un altro bersaglio, doveva stare ritta in piedi sulle zampette posteriori con un piccolo fucile di legno, costruito per lei da mio papà, e fare “la sentinella”;  lui le impartiva gli ordini in tedesco (era stato due anni in un campo di concentramento in Polonia) e non doveva ritornare sulle quattro zampe fino a quando non glielo permetteva. Povera Liù.
Come ho già detto, mia madre non era per niente contenta che portassimo i gatti in casa. Figurarsi in camera, dove una volta aveva beccato un nostro protetto  intento a rigurgitare sotto il suo comò: interdizione perpetua ai piani superiori. Noi piccole facevamo di tutto per aggirare il divieto, così un’altra volta beccò noi in cameretta con una gatta in procinto di partorire, accomodata nel nostro armadio. Ci mancò poco che non sfrattasse anche me e mia sorella mandandoci a  soggiornare nella baracca con la neo-mamma. Diventai più furba crescendo, quando la mia nonna paterna dopo otto anni di convivenza a volte burrascosa ( lei e mio padre facevano periodicamente tremende baruffe per motivi futili) andò in un pensionato chiesi ed ottenni la sua camera, che aveva una finestra che dava sulla scala esterna. Mia sorella protestò, eravamo sempre state in cameretta insieme, dormendo in due letti vicini, ma argomentai che avremmo guadagnato spazio tutte e due, io ne avevo bisogno per studiare e disegnare. Quando era ora di andare a dormire e per noi ragazze il momento scoccava dopo Carosello, riuscivo invece di “buttar fuori il gatto”, cosa che purtroppo da piccole eseguivamo alla lettera, prendendo un micio addormentato caldo caldo e sbattendolo fuori in cortile di botto, a contrabbandare il felino in camera mia, nascosto sotto la vestaglia o il maglione, complice il buio corridoio in cui non accendevo la luce. Mi infilavo sotto le coperte col mio tesoro, a volte anche con due gatti che ronfavano grati per ore, facendo la pasta sulle mie gambe. Una delizia. A metà della notte però le bestiacce si ricordavano di essere predatori notturni e sbucavano dal giaciglio rivendicando la loro selvaggia natura. Allora dovevo agire in fretta, prima che i miei dalla camera vicina si accorgessero del misfatto. Avevo provveduto a lasciare gli scuri della finestra che dava sulle scale esterne solo socchiusi, cercando di non fare il minimo rumore li aprivo un poco in modo che i gatti potessero saltare sugli scalini e eclissarsi nel loro mondo di feroci cacce notturne. Poi tornavo a dormire nel mio letto pieno dei loro peli e anche di fastidiosissime piccole pulci che, rimaste orfane di gatto, cercavano di rivalersi sulla mia pelle. Al mattino cercavo di togliere alla meglio i peli dalle lenzuola prima di andare a scuola, ma non sempre la facevo franca. “Hai portato di nuovo i gatti a letto!” mi rimproverava la mamma, “Credi che non me ne sarei accorta?”. Era come giocare a guardie e ladri.
I gatti andavano spulciati, passavo ore a rincorrere le pulci che correvano disperate nascondendosi nel pelo soffice, riuscivo a stanarle dove la pelliccia era più rada, sotto la pancia, le rincorrevo sotto le ascelle, dietro le orecchie, sul muso e sul collo del gatto. Mi piaceva schiacciare le maledette tra le unghie dei pollici, skicc!
Quando ebbi una macchina fotografica Kodak cominciai a fotografare i miei mici: una gattina striata rossa, Sophie, ripresa piccola e tenera sopra una zucca verde, in un’ altra foto è in posa quasi malinconica fra gli attrezzi di mio padre. I quattro neri  gattini orfani della gatta Marica, nera anch’essa, il gatto Cico  e Marco, il mio amato Marco tutto nero a cui feci anche un ritratto a china. Spesso in inverno si addormentava sopra il termosifone della mia camera, così profondamente che, completamente cotto, scivolava cadendo sul pavimento. Sorpreso e disorientato per il suo errore, come tutti i gatti fingeva non fosse successo nulla, perlomeno non a lui, e con dignità prendeva a leccarsi partendo dal muso per finire al grazioso buchetto del culo. “Ma non ti fa schifo farti leccare dal gatto?” si disperava mia madre “ Sei così schizzinosa per il cibo e poi ti fai leccare il viso da una bestia che con la lingua si è appena pulita il didietro!” No che non mi faceva schifo, inutile spiegarlo se non ami un gatto più di te stessa.

foto- Di Gatti e di altri AMORI - 1^ Parte
la piccola tenera Sophie © Copyright Paola G.

Paola Marini Gardin
© Copyright Paola G.

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